Centro-sinistra veneto post elezioni: la sfida è cambiare i comportamenti.

“Dobbiamo evitare di cadere nel solito errore di psicanalizzare noi stessi”. Così qualche giorno fa il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Andrea Martella spronava il Pd del Veneto, invitandolo a non perdersi in esami di coscienza e a costruire il “dopo Zaia”.

Condivisibile la volontà di evitare una traduzione in chiave “patologica” delle difficoltà connesse alla sconfitta elettorale. Non ci sono “disagi psichici” da curare,  c’è però indiscutibilmente da migliorare la propria “performance”.

Può risultare più utile allora richiamare l’approccio agli interventi di Coaching, metodo che in aree molto diverse, dallo sport al business (ma perché no in politica?), aiuta a ottimizzare il proprio potenziale e migliorare le prestazioni.

Premetto che anche se mi riferisco alle dinamiche post-elettorali del Pd, in realtà, il tema riguarda tutti coloro che, collocandosi nel fronte progressista, hanno, in alleanza o correndo da soli, dimostrato una profonda inadeguatezza nella propria capacità di rappresentanza.

Nel dibattito del dopo-elezioni è ancora prevalente a mio parere quella che nel “Coaching Strategico” viene definita come  “tentata soluzione ridondante”.

Tutti noi percepiamo e reagiamo alla realtà utilizzando “copioni ricorrenti” che in molti casi si rivelano efficaci guide interpretative. Succede però che vengano ripetuti anche quando la loro applicazione non ci aiuta più ad orientarci, anzi diventa un vero e proprio “auto-inganno” e «la soluzione tentata diventa essa stessa il problema» (P. Watzlawick). 

Nel dibattito Pd di questi giorni sembra proprio di assistere a questo fenomeno. Alla capacità di analisi piuttosto articolata e a tratti anche molto sincera e severa (la lucida relazione in Direzione Regionale del Segretario Bisato lo è stata particolarmente), alla consapevolezza dichiarata della necessità di cambiare, fa da contraltare, pressoché unanime, la proposta di affidare ad un Congresso la soluzione dei problemi. Questa volta, si sottolinea, dovrà essere un congresso  “nuovo”, “vero”, “rifondativo”. Esattamente quanto ci si era riproposti di fare, con esiti ampiamente fallimentari, in tutte le occasioni analoghe,  successive a sconfitte elettorali.

Per restare nella terminologia del Coaching, affidarsi alla coazione a ripetere del rito congressuale significa fondamentalmente non voler uscire dalla propria “zona di comfort”.

Chi ha studiato i comportamenti degli sportivi ci dice che “gli atleti olimpionici lavorano su abilità che devono ancora perfezionare mentre chi fa parte di una squadra a livello locale tende ad allenarsi sulle competenze che già possiede. I dilettanti infine trascorrono metà del loro tempo ai bordi della pista a chiacchierare.”

Ai giorni nostri, senza infingimenti e con realismo, possiamo dire che un’esperienza congressuale sta un po’ a metà strada, come esercizio, tra l’allenamento sulle competenze che già si possiedono e la chiacchierata al bordo della pista. 

Certo, preveniamo l’obiezione, un congresso è espressione irrinunciabile di democrazia interna in un partito. Ci mancherebbe. Il punto non è questo. Il Pd e il centrosinistra non soffrono di carenza di dibattito interno, soffrono della scarsità di iniziativa all’esterno.  Non è in discussione lo strumento congressuale in sé, ma le aspettative che in esso si ripongono.

Decidere “solo”, come sta avvenendo, di indire un Congresso significa procrastinare l’adozione concreta di correttivi “qui ed ora”. Significa affidare ancora alla formula magica della discussione interna una sorta di funzione palingenetica restando tuttavia uguali a se stessi e ritornando, alla fine, a fare quello che a parole si vuole esorcizzare, e cioè la sterile autoanalisi che non ha mai prodotto cambiamenti.

Significa restare nel campo delle buone intenzioni, proclamando magari discontinuità,  ma senza cambiare i comportamenti. Per tornare alla terminologia del Coaching si potrebbe dire che siamo  in presenza di una performance bloccata sul livello “incapacità all’azione”. C’è consapevolezza di quello che si dovrebbe fare, della strategia, ma non si è in grado di applicarla, non si riesce a metterla in atto.

Il cambiamento richiesto per migliorare la performance del Pd, ma, ripetiamo, il discorso vale per tutto il centrosinistra, sta in un modo diverso di  essere e relazionarsi in società, non nella verifica della propria intelligenza analitica o del livello di cultura. Sta nella capacità di produrre relazioni ed esperienze nelle quali “gli altri” si “sentano bene”,  non nella capacità di fare l’elenco dei temi programmatici. Sta nella testimonianza e nell’esempio, non nell’insegnamento. Sta nel dimostrare con l’azione, non nello spiegare con le relazioni.

Non si risalirà la china dei mancati consensi affidandosi alle analisi e nemmeno alla più lucida delle strategie. Serve un ribaltamento della “cultura” profonda dell’organizzazione, dal “come” al “perché”, dalle procedure allo scopo. Serve una rivoluzione dell’ascolto e dell’empatia che, per dirla con Séguéla, punti a “conquistare l’affettività pubblica più ancora che l’opinione pubblica”. E tutto ciò costa, al vertice come alla base, molta più fatica che preparare un intervento al congresso.

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