Massimo D’Alema viene dipinto spesso come un esponente politico “machiavellico”, nel senso deteriore che questa espressione ha assunto, incline cioè ad una certa spregiudicatezza, generalmente impegnato in complicati disegni e trame oscure per “far fuori” politicamente gli avversari di turno (in generale i competitor del proprio fronte).
Tuttavia gli va dato atto di esprimersi, non di rado, con una tale schiettezza, pur ruvida e cinica che sia, che viene da riconoscergli una sorta di onestà intellettuale.
È il caso di quanto affermato da D’Alema nel corso del recente evento online “Il cantiere della sinistra” organizzato dalla sua fondazione, Italiani Europei.
D’Alema nel suo intervento è stato sincero, quasi disarmante, nell’esplicitare i due presupposti sui quali il convegno si basava.
Con franchezza, mescolata come è nel suo stile ad una sorta di ironica eleganza, ha affermato che il proposito dell’iniziativa era quello di riunire “coloro che alle spalle hanno una somma di esperienze politiche che non hanno avuto successo”. Un ripartire, detto più crudamente, da diverse storie di fallimento.
Da questa prospettiva ci si stupisce meno della presenza, tra i relatori al convegno, dell’eretico, e poco incline a partecipare ai riti della “cantieristica” politica di sinistra, Matteo Renzi, vero e proprio “nemico” storico di D’Alema. Simbolo negativo quest’ultimo, forse più di ogni altro, della battaglia per la “rottamazione” già dai tempi in cui Renzi correva alle primarie per la carica di candidato sindaco a Firenze.
Nel suo intervento tuttavia, pur marcando significative differenze di analisi, Renzi ha riconosciuto senza infingimenti quel “comune denominatore” delle esperienze di insuccesso, in particolare dal punto di vista della capacità di rappresentanza e presenza sociale, quando ha affermato, sicuramente ricomprendendo nel giudizio anche la fase del suo doppio incarico di Presidente del Consiglio e Segretario del Pd, che “ci siamo molto occupati di governo e siamo stati molto meno capaci di fare la differenza sulle forme partito”.
Non è stata un’autocritica estemporanea quella dell’attuale leader di Italia Viva se consideriamo la sua intervista di qualche settimana fa al Corriere nella quale, per la prima volta, ha apertamente manifestato il rimpianto di “non avere lasciato subito dopo il referendum”. Una maturazione nella valutazione del percorso seguito alla sconfitta in cui affiora in controluce il “meta-messaggio”, magari inconsapevole, di una presa di distanza dalle scelte successive, ivi compresa la fondazione di un partito che non ha mai davvero visto la luce, inchiodato a percentuali irrilevanti e obbligato ad operare esclusivamente nell’arena “tattica” dei gruppi parlamentari, anche se districandosi su questo terreno con abilità. Ma su Renzi e le forme di azione e organizzazione della politica riprenderemo il discorso più avanti.
Il secondo presupposto dal quale il convegno online ha preso le mosse, sul quale fondare il “nuovo cantiere” della sinistra, è stato, nelle parole dei promotori, il recupero, da parte del campo largo democratico-progressista, di una “propria ideologia”.
Inevitabile la sensazione di trovarci davanti alla tipica sindrome da “tentata soluzione ridondante” di cui ho già avuto modo di parlare in un precedente intervento. Si reitera una “soluzione” che magari può avere avuto successo nel passato ma che ora, in un contesto completamente mutato, risulta del tutto inefficace, trasformandosi essa stessa in problema.
Un ritorno all’ideologia, ad uno schema astratto nel quale ricomporre forzatamente tutte le contraddizioni dei fenomeni sociali complessi e non imbrigliabili, diventa una “scorciatoia euristica” che mira a riaffermare una mitica identità salvifica, statica e immutabile, pur costantemente smentita dal confronto con la realtà. Un tentativo di forgiare “scientificamente” un “ordine sociale” invece di, più pragmaticamente, incarnare valori traducendoli in azioni per farli vivere nella società cosi com’è, influenzandola positivamente.
Non a caso, nella relazione introduttiva e poi in alcuni interventi, si è richiamata la necessità di “tracciare il perimetro” di pensiero e azione della sinistra italiana. Un’espressione rivelatrice di una reazione difensiva, di una volontà di non uscire dalla propria “comfort zone”. Un delimitare invece che ricomprendere, un tener fuori invece che includere, una reazione di ripristino dell’identità smarrita invece che di ricerca e sperimentazione a tutto campo della propria missione. Un lavoro, richiamando uno degli incontri del “Piccolo Principe” nel suo viaggio tra pianeti, da geografi che a tavolino definiscono una mappa priva di verifiche empiriche invece che da esploratori che attraversano e scoprono il territorio per quello che è, senza pregiudizio.
Un approccio che rischia davvero di tradursi nella mirabile definizione di Anna Maria Testa che parla dell’ideologia come di una forma di “pigrizia del pensiero”.
Come diceva qualcuno, difficile che le cose cambino se si continuano a fare allo stesso modo. Difficile aspettarsi esiti diversi dal solito se l’approccio di pensiero rimane ancorato al passato.
E sembra che proprio da questo bisogno di “mettere le brache al mondo”, che porta a sbattere sul muro della realtà che non si sottomette all’ideologia, derivi come conseguenza quella propensione a occuparsi di politica in una dimensione quasi esclusivamente “governista”. Una rinuncia alla rappresentanza di una società che non rientra più in polverosi schemi ideologici, e che ha come conseguenza un distacco, imbarazzato, dalle persone in carne ed ossa, finendo per dare linfa all’identificazione semplificatoria e populista tra classe dirigente progressista ed élite, di governo o di potere, e alla dicotomia conseguente tra questa e il popolo. Una rigidità ideologica che paradossalmente si traduce in disponibilità al compromesso, al moderatismo e quasi “qualunquismo” delle politiche, al presidio governista appunto, in nome del quale si può giustificare praticamente qualunque alleanza.
Rivelatore di questo approccio è ancora D’Alema quando afferma che i progressisti, per inseguire il sogno della vocazione maggioritaria, hanno finito per perdere terreno in quel 30% di elettori che vengono considerati, di “default”, di sinistra. In sostanza i progressisti, per esistere, dovrebbero “delimitare il perimetro” del loro consenso. Un’ammissione implicita di non riuscire a trovare una sintonia con gli italiani. Un “meno siamo e meglio stiamo”, una purezza identitaria che rinuncia all’obiettivo di rappresentare la maggioranza degli italiani e che più opportunisticamente galleggia nell’area di governo aprendosi a compromessi di potere potenzialmente con chiunque.
Una visione delle cose falsata probabilmente da un’idea di continuità della storia. Invece di identificare nuove direzioni da percorrere, con apertura e flessibilità, scatta un riflesso “burocratico”, una coazione a ripetere lo stesso approccio fallimentare da parte di una nomenclatura rimasta più o meno sempre la stessa, almeno come forma mentis.
È possibile cambiare, e ribaltare, prospettiva. Se il passato ci può dare una lezione è che la storia umana è una sequenza di discontinuità. E quindi possiamo guardare al futuro confidando nella stessa regola, cogliendo e anticipando i segnali di discontinuità che esso ci offre.
E perché quindi non ci proviamo, perché non cerchiamo di liberarci da un ideologismo tanto massimalista nei fini quanto ripiegato su politiche incolori e insapori? Una tradizione che, bisogna dirlo, ormai ha perduto anche quel “primato della competenza” di cui si era, per qualche tempo almeno, fatta vanto.
Perché non ci proviamo adottando una prospettiva di pragmatismo empatico, che si coglie in fieri in tante espressioni dell’impegno civico e sociale e che invece in politica fa fatica ad affermarsi?
Non stiamo parlando di qualcosa di estraneo al campo progressista. Pragmatismo empatico, solidarismo, mutualismo, comunitarismo, cultura dell’operare, sono gli ingredienti che hanno caratterizzato lo sviluppo dei movimenti progressisti, di cui si sono nutrite in particolare la tradizione popolare e quella socialista-riformista anche nel nostro Paese.
Nell’approccio ideologico ci si affida inevitabilmente a qualche evento palingenetico che adempia al compito di trasformazione sociale complessiva e a formare l’uomo nuovo. Così si è passati via via dall’obiettivo dell’abbattimento del capitalismo tout court e sua sostituzione con un sistema socialista, ad un non meglio identificato “superamento” del capitalismo, fino ad arrivare, ci si è espressi ancora così nel convegno, alla sua “riforma”. Al di là dei via via più miti propositi restano le costanti dell’indeterminazione del percorso idoneo al verificarsi di queste soluzioni “definitive”, e del ripiegamento nell’atteggiamento mentale di procrastinazione in attesa del sole dell’avvenire, sia pure un po’ sbiadito.
Nel campo progressista italiano occorre a mio parere trasformare la vocazione all’analisi, alla costruzione ideologica, in vocazione alla prassi, la passione per la discussione in passione per l’azione.
L’approccio del Community Organizing proveniente dal mondo anglossassione e ancora semi-sconosciuto in Italia, può aiutare in questa direzione. Non si tratta tanto e solo di applicare un diverso metodo organizzativo. È un’occasione per ridare senso a visione e valori progressisti, che possono rivivere, a mio parere, solo se si traducono, si incarnano, in azioni concrete per le comunità.
Saul Alinsky, considerato il padre di questo approccio, sosteneva che “come organizzatore parto da dove è il mondo, così come è, non da dove mi piacerebbe che fosse. Il fatto che accettiamo il mondo così come è non indebolisce in alcun modo il nostro desiderio di cambiarlo in ciò che crediamo debba essere – è necessario iniziare dal mondo, così come è, se vogliamo cambiarlo in ciò che pensiamo dovrebbe essere.”
“La tensione tra il mondo-come-è e il mondo-come-dovrebbe-essere non è un problema che deve essere risolto” affermava Edward Chambers, Direttore per lungo tempo dell’Industrial Area Foundation, l’organizzazione fondata da Saul Alinsky, “è la condizione umana. Abbracciare questa tensione è il nostro destino spirituale.”
Su modelli di Community Organizing si sono basate le campagne politiche americane di Obama (che fu negli anni giovanili proprio un Community Organizer per i cittadini di colore a Chicago e che si ispirò nella propria esperienza alle teorie e alle prassi di Saul Alinsky).
In molte realtà locali, per fare un esempio di applicazione all’interno di un partito di questo approccio, il Labour britannico ha adottato in modo sistematico già da alcuni anni questa nuova modalità di fare, organizzare e comunicare la politica.
Per Obama lʼorganizing parte dalla premessa che i problemi che devono affrontare le comunità “non sono una conseguenza della mancanza di soluzioni efficaci, ma della mancanza di potere per implementare queste soluzioni”.
Spesso chi si occupa di organizzazione e partecipazione dei cittadini trascura proprio questo principio e, come afferma Saul Alinsky, “se le persone sentono di non avere il potere di cambiare una situazione negativa, allora non pensano a come farlo”.
Un approccio quindi che parte da un presupposto fondamentale: un movimento, un partito, ha uno scopo (e le persone ti daranno fiducia) se con la sua azione ha il potere di far “accadere il cambiamento” nel suo ambito di competenza.
Un modello orientato all’azione e al risultato in un duplice senso. Attraverso il self-help, la capacità dell’organizzazione di produrre da sé servizi e attività utili per la comunità, in una logica di sussidiarietà diremmo. E attraverso l’advocacy, la capacità di produrre azioni pubbliche in grado di ottenere risultati attraverso azioni di pressione e negoziazione con le istituzioni e gli altri nodi del potere politico ed economico nei diversi livelli territoriali.
Un’organizzazione politica o sociale che si basa sul Community Organizing è quello che io definisco un movimento-relazione, modello che si contrappone al tradizionale partito-struttura, modello burocratico di organizzazione tutto concentrato nelle proprie dinamiche interne.
Un movimento-relazione comunica e fa politica con le proprie azioni. Tutto nell’organizzazione è orientato verso l’esterno, ogni azione del movimento è pensata non per le dinamiche e gli equilibri interni, ma per “uscire fuori’’, nella comunità, per essere trasmessa, compresa, condivisa con i cittadini.
Invece di organizzarsi per produrre elenchi di ‘‘temi’’ ci si organizza per campagne d’azione. Un tema non può rimanere un elenco di cose da fare, si deve trasformare “nelle cose da fare”.
Da un modello concentrato prevalentemente sulla propria organizzazione interna e sui relativi assetti, su una comunicazione prevalentemente unilaterale verso l’esterno e sulla condivisione da parte di iscritti e sostenitori di identità ideologiche rigide e non più aggiornate, ad un modello quindi nel quale ogni decisione ha l’obiettivo di incidere e modificare l’ambiente esterno, con una modalità comunicativa bilaterale e multilaterale in grado di ascoltare e ricevere feedback, e dove la condivisione degli attivisti è basata non solo su identità ma più “pragmaticamente” su obiettivi e azioni concrete rivolte a produrre benefici per la comunità e gli elettori.
Un modello di organizzazione che si fonda, come ben descritto in un vero e proprio manuale di Community Organizing pubblicato dal Labour Party anni fa, su quattro principi base:
- la “comprensione” profonda della propria comunità, dei tratti culturali e sociali che possono favorire o frenare lo sviluppo di una campagna. Comprendere è, come ci dice Giorgio Moretti, autore di “Una parola al giorno”, qualcosa di più di capire. “È un contenere che è includere, un capire che è afferrare – una considerazione che riorganizza e ridisegna ogni assetto precedente. Comprendere un principio di valore, un pensiero, una posizione, un sentimento, fa sì che nella nostra mente acquisisca il peso massimo che può avere, che dispieghi il massimo effetto: ciò che si comprende si fa proprio, diventa mattone per costruirsi.” Comprendere quindi per “partire con le persone” come ci ricorda Alinsky “con le loro conoscenze, le loro esperienze, il loro punto di vista”. Significa “calarsi nella vita della comunità, saper lavorare “con ciò che si ha a disposizione”. Pragmatismo ed empatia quindi, come presupposti fondamentali “per la buona riuscita di uno sforzo organizzativo”;
- le campagne d’azione. Se il primo principio riguarda il modo di essere dell’organizzazione, la sua cultura organizzativa, il secondo invece concerne la modalità operativa, l’efficacia dell’organizzazione e si caratterizza nell’individuazione di azioni comunitarie pensate in termini di “campagne” con obiettivi SMART (specific, measurable, achievable, relevant, timed e cioè specifici, misurabili, sostenibili, rilevanti per la comunità, pianificati e definiti nei tempi). Una politica “a progetto”, “a risultato”. Per fare un esempio tratto da un’esperienza concreta in corso: non basta dipingere di Green un programma politico od elettorale per costruire relazione, credibilità e consenso con i cittadini. Sarà molto più efficace se al contenuto programmatico si accompagnerà, per esempio, una raccolta popolare di firme tra cittadini, un appello-impegno da far sottoscrivere ai candidati rappresentanti dell’amministrazione comunale per l’avvio, ad esempio, della certificazione di sostenibilità ambientale della città. Impegno che da eletti dovranno mantenere e sul quale va tenuta alta la mobilitazione fino a che non si raggiunge il risultato;
- “l’empower” di sostenitori e attivisti. Vale a dire che l’efficacia delle relazioni e delle campagne attivate si deve fondare su una cultura e dei leader “nutritivi” non solo delle motivazioni politiche (fare il bene della propria comunità), ma anche personali, di sostenitori e attivisti. Sono questi ultimi a mettersi in gioco e quindi diventa importante facilitarne l’automotivazione, che è il vero motore che spinge all’azione. Anche a partire dalla naturale propensione umana a mettere in luce le proprie capacità, i propri talenti, e interessi, nel significato etimologico del termine, combinazione di “tra” ed “essere” come ci ricorda il già citato Edgard T. Chambers: “i nostri interessi non risiedono dentro di noi ma tra di noi, tra le nostre relazioni con gli altri.”;
- la pro-attività delle organizzazioni di base per il rafforzamento del partito locale e nell’individuazione e coinvolgimento di sostenitori, attuali e potenziali, che possano diventare “leader” nelle azioni delle campagne e nella capacità di coinvolgimento della comunità. In poche parole meno sedi abbandonate che prendono vita solo per dibattere sulla crisi di Governo o sulle mozioni congressuali, e messa a disposizione degli spazi per incontri con le comunità, le associazioni di quartiere, le categorie economiche, le organizzazioni dei lavoratori, etc. Per ascoltare, individuare i problemi rilevanti, scegliere tra questi la campagna da attivare definendone esattamente gli obiettivi da raggiungere, le azioni per raggiungerli, e i tempi entro i quali raggiungerli. Non il classico, trito e ritrito, claim “ripartiamo dai Circoli”, ma un ripartire dalle comunità mettendosi a disposizione di queste. Ripetiamo, il senso di un’organizzazione è fare accadere il cambiamento nel proprio ambito di competenza, mobilitarsi e incidere nella realtà nella quale si è in grado di intervenire.
E in Italia come siamo messi? Dicevamo all’inizio dell’ammissione da parte di Renzi di non aver saputo affrontare la questione dell’innovazione delle forme organizzative. Ha decisamente sottovalutato l’importanza della cultura dell’organizzazione come fattore di efficacia nel perseguimento della propria missione. Lo si è visto nel Pd, ma lo straordinario risultato elettorale delle europee 2014 poteva in quel caso effettivamente far pensare che l’azione di Governo potesse essere sufficiente nella conquista di un consenso duraturo. Ma lo si vede ora anche in Italia Viva, dove obiettivamente il partito arranca a livello territoriale e l’azione risulta esclusivamente concentrata nell’arena parlamentare.
Va riconosciuto però proprio a Renzi uno dei pochi tentativi fatti da partiti italiani di affrontare in modo innovativo la questione. Che in realtà, ho cercato di spiegare, è questione non di forma ma di sostanza, in quanto afferisce a cultura, visione e valori dell’organizzazione.
Nella mozione congressuale con la quale Renzi vinse per la seconda volta le primarie per la segreteria del Pd (era il 2017, sembra una vita ma sono passati solo tre anni e poco più) c’è un passaggio che si ispira decisamente all’approccio di Community Organizing:
“ridefinire la fisionomia dei circoli che devono diventare punto di riferimento della propria comunità, … ripensare il dirigente del PD sul territorio, a partire dal segretario di circolo, come un promotore e organizzatore di comunità.” E si continua riconoscendo inoltre che questi obiettivi possono essere conseguiti dotando “i circoli e i livelli territoriali del PD di competenze e ruoli professionali dedicati a specifiche attività sempre più rilevanti quali: la gestione del volontariato intergenerazionale, l’aggiornamento e la gestione di database e analisi dei dati, la promozione dell’autofinanziamento e la comunicazione sui nuovi social media”.
Una dichiarazione d’intenti rimasta lettera morta ma che andrebbe invece fatta uscire dai cassetti polverosi, ripresa, approfondita, sviluppata. Soprattutto implementata.
Perché se un futuro c’è per il campo progressista non crediamo possa trovarsi nell’eterno ritorno di leader sconfitti e cantieri incompiuti e abbandonati.
Non vorremmo che le energie e le speranze che aspettano di emergere nel campo progressista venissero frustrate e assumessero le sembianze di “umarell” della politica che osservano passivamente lavori di costruzione che non partono mai.
Serve innovazione, serve discontinuità. Serve il coraggio di sperimentare.
Ci piacerebbe allora vedere che si comincia a fare diversamente. Investendo ad esempio nella formazione di figure di Community Organizer per riconciliare e riconnettere, dal basso, le forze progressiste con il Paese, con le comunità.
Organizzatori di comunità, in grado, con professionalità, di facilitare l’esercizio quotidiano di cittadinanza attiva a partire dalle piccole questioni che investono la vita collettiva delle persone e alle quali si possono offrire soluzioni. Certo con poche chiacchiere, zero carrierismo, molto impegno e spirito di abnegazione.
Figure che potremmo quasi definire Coach di comunità, che impiegano molto del loro tempo nell’ascolto attivo, che costruiscono fiducia producendo esperienze nelle quali le persone si sentono bene, accolte, comprese. Facilitatori delle relazioni, che connettono le persone le une con le altre e con la causa comune, che formano leader aiutandoli a interagire positivamente con le comunità e tra organizzazioni, supportandoli nel diventare costruttori di squadre vincenti, nel condurre campagne e ottenere risultati per la comunità, non nell’acquisire posizioni di potere per se stessi.
Che, in definitiva, sappiano incarnare, essere di esempio e testimoni, di quel pragmatismo empatico (e radicale non nei fini ma nella determinazione a raggiungere i risultati “qui e ora”) di cui abbiamo parlato, superando definitivamente l’approccio ideologico, massimalista negli obiettivi, tanto ambiziosi quanto indeterminati e mai verificabili.
Un approccio praticamente sconosciuto nella politica italiana ma che è sperimentato con successo anche nel nostro Paese da tante organizzazioni di volontariato, di impegno civico e sociale, dalle quali trarre esempi virtuosi.
Come ha detto efficacemente Luciano Floridi, filosofo e Presidente della nuova associazione Base Italia coordinata da Marco Bentivogli: mettiamoci a fare, è il tempo di dare l’esempio. Invece di discutere se il bicchiere è mezzo vuoto o mezzo pieno diventiamo quelli che riempiono il bicchiere.