Può esistere un riformismo senza consenso?

La “mossa del caciocavallo”, così l’ha definita il Direttore del Foglio Claudio Cerasa, con la quale Matteo Renzi ha aperto la crisi del Governo Conte 2, ha reso ancora più evidente, a mio parere, un fenomeno di vera e propria “rimozione” del tema del consenso nell’ambito delle forze di ispirazione riformista di matrice liberal-democratica. 

Rimozione, innanzitutto, della necessaria fatica che comporta la ricerca e la costruzione del consenso reale tra i cittadini. Rimozione accompagnata spesso anche da un equivoco di fondo sui fattori stessi che contribuiscono a generare il consenso. 

Lo spunto a questa considerazione lo offrono ancora una volta le parole di Massimo D’Alema: “Non si manda via l’uomo più popolare del Paese per volere del più impopolare”. Un’affermazione che dovrebbe essere presa come un’ovvietà e che invece ha sortito reazioni piuttosto piccate, da parte sia di Carlo Calenda sia dell’obiettivo diretto della puntura di spillo di D’Alema, ovvero Matteo Renzi.  

Calenda ha liquidato la frase di D’Alema sostenendo che “abbiamo l’espressione perfetta che sintetizza la riduzione della politica a Grande Fratello Vip”.

Matteo Renzi ha sostenuto che “non è importante se sei popolare, ma se sei bravo. Per fare politica non serve essere simpatico.”

Personalmente, sul tema, rimango invece fedele a quel giovane sindaco fiorentino che nel suo primo libro prendeva di mira il ritornello “gli elettori non ci hanno capito” degli esponenti della sinistra collezionisti di sconfitte elettorali. 

Non ti hanno capito loro?”, si domandava retoricamente il sindaco colpendo poi subito sul vivo: “sei tu che vivi in una bolla separata dalla realtà”.

Mi pare sarebbe abbastanza difficile, anche per coloro che condividono tuttora le azioni del leader di Italia Viva, non ammettere che esiste, sul tema, una forte discontinuità, un vero ribaltamento di prospettiva,  tra il Renzi della prima ora e il Renzi di adesso.  

Certo, in politica essere popolari non significa necessariamente essere nel “giusto”, ma essere impopolari è comunque una dimostrazione di incapacità. 

Disprezzare il fatto che un politico goda di popolarità (come si evince nel commento di Calenda) o ritenere che essa sia un requisito addirittura che si contrappone alla bravura (come induce a ritenere Renzi), rischiano di apparire posizioni di “distacco” snobistico dal tema, serio, della rappresentanza in politica.  

Al massimo si tenta di uscire dall’impasse dicendo che il politico non deve inseguire i sondaggi d’opinione. 

Salvo poi sbandierare con orgoglio una “rilevazione”,  non di un Istituto specializzato, ma di una rivista online, organizzata tra i propri lettori (tutt’altro che un campione rappresentativo),  che ha definito Renzi il politico “personaggio dell’anno 2020”,  dato in sé del tutto neutrale rispetto ad una valutazione di gradimento. O, come fa Calenda, esultare per uno zero virgola guadagnato nell’ultimo sondaggio pubblicato.

Viene da chiedersi, ok non ti interessa essere popolare, ti interessa essere bravo. Ma chi valuta in politica la “bravura”? Vale l’autocertificazione? O, piaccia o non piaccia, in democrazia, l’unico responso lo danno gli elettori? 

Buttiamo pure via i sondaggi (sempre però), ma quale sforzo organizzativo, di elaborazione e azione concreta, in tema di costruzione del consenso è stato fatto, da un anno e più a questa parte,  dal partito che si era dato la missione di “svuotare” il Pd come Macron ha fatto con i socialisti francesi?

Attenzione, non si tratta di privare di legittimazione idee e posizioni in quanto minoritarie nella contingenza politica attuale. Ci mancherebbe. È nella fisiologia democratica che una minoranza porti avanti con passione e determinazione le proprie posizioni. E che lo faccia per diventare maggioranza. Il problema si pone quando invece sembra che ci si arrenda alla difficoltà di raccogliere consenso rivendicando la propria impopolarità, facendone paradossalmente quasi una cifra distintiva della bontà di una proposta. Quando ci si percepisce portatori unici ed esclusivi della verità oggettiva, quando si rifiutano mediazioni su qualsiasi propria posizione. Quando decidi di far saltare il banco non nel momento in cui ti trovi respinto ma nel momento in cui vengono accolte, almeno in parte, le tue proposte. 

Alla base c’è un’idea, forse un po’ naïf, dei vantaggi per il proprio consenso che possono produrre la ricerca di visibilità attraverso i continui distinguo, la rincorsa affannosa al più uno

Il consenso, quando sei al governo, lo ottieni coniugando visione e valorizzazione dei risultati conseguiti, in particolare quelli ottenuti attraverso l’azione dei tuoi ministri. 

Esternando in modo insistente ed irruente l’insufficienza dell’azione di governo, l’inadeguatezza del Premier e dei ministri degli altri partiti, alimentando  una conflittualità permanente con il resto della maggioranza, gli elettori di area governativa reagiscono in larga parte con fastidio verso di te e comprensione verso chi porta su di sé il peso delle maggiori responsabilità di governo, che magari può essere lento e compiere errori, ma dimostra impegno e mitezza nei comportamenti. 

L’elettore potenzialmente di opposizione trova conferma del suo scetticismo nei confronti del governo e certamente non deciderà di rafforzare una forza politica di maggioranza che con la propria azione mette in evidenza al tempo stesso i limiti dell’azione complessiva dell’esecutivo e, lamentandosi di non ottenere risultati, l’inefficacia di un possibile investimento elettorale a favore della forza politica contestatrice dall’interno.

Dietro all’idea del politico che va premiato, non si sa da chi, perché è bravo c’è l’illusione illuministica della scelta razionale degli elettori (ne abbiamo parlato qui). Elettori immaginati tutti come accaniti lettori dei documenti e dei distinguo programmatici delle diverse forze politiche, tutti esperti e famelici consumatori di fitte pagine sul Mes e sul Recovery Plan, per restare al “casus belli” della crisi di governo.

Insomma, anche quella dei bravi, dei competenti, alla fine dei conti, è una narrazione. Che ha un suo target, che risponde, in realtà emotivamente, ad un messaggio che fa leva erroneamente alla presunta superiorità della razionalità sulla percezione e sull’emozione dell’elettore. Un target di nicchia, di chi “si sente”, si percepisce, competente a sua volta. Quindi un target da presunti primi della classe che naturalmente, per questo, non sono, sovente, i migliori testimoni a loro volta di empatia e simpatia. 

Come diceva Paolo VI “l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri”.  

Quello che non si sopporta, appunto, non è la competenza “testimoniata” ma  quella “autocertificata” e soprattutto l’aura di infallibilità che l’accompagna. E che la saggezza popolare sa interpretare nella sua più frequente manifestazione di sintesi, vale a dire: spocchia e distintivo.  

Una variante di questa narrazione è quella di appellarsi ai tecnici come espressione oggettiva di competenza, non rendendosi conto che in questo modo si rischia di attivare da un lato l’associazione a volontà di aggirare la rappresentanza politica in nome di provvedimenti “lacrime e sangue” che non devono trovare ostacoli, e dall’altro si dà un messaggio squalificante della politica e dei politici, considerati evidentemente inutili anche nell’arte di governare che dovrebbe costituire il loro specifico.  

Non tralasciamo poi il fatto che anche nell’ambito dei “migliori per autocertificazione” c’è sempre il più puro che ti epura, come dimostra il tono liquidatorio con il quale Calenda ha definito praticamente fuffa anche il piano “Ciao 2030” contenente le proposte di Italia Viva per il Recovery Plan. 

E comunque corri sempre il rischio che qualcuno osservi come in ottobre rivendicavi di aver inserito nel Recovery Plan il Ponte sullo Stretto per poi in gennaio riconoscere a denti stretti che non è tecnicamente un’opera che ne possa far parte.  

Fa particolarmente dispiacere dover registrare questo tentativo di presentarsi come alfiere di un’algida competenza tecnica in un politico come Renzi che è stato capace di conquistarsi un consenso strepitoso grazie ad una naturale,  preziosa, ed unica nel fronte progressista, capacità di mettersi in sintonia con gli italiani. Anzi ricordiamo che non poche furono le sue frecciate verso quel governo asettico dei “tecnici” che inciampò, nonostante le competenze indiscusse, in particolare, ma non solo, sul tema degli esodati. 

Non ci sono scorciatoie, in democrazia vale il consenso. Certamente, in altri ambiti, puoi anche sostenere, come ironizzava Bertold Brecht sui “Comitati Centrali”, che “poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo”. 

In politica del resto, se sei davvero competente e bravo, le battaglie di “merito”, come si è voluta presentare quella che ha portato alle dimissioni delle due ministre, le sai condurre senza dover “bullizzare il tuo riformismo” per utilizzare l’espressione efficace di Giuliano Ferrara, senza cioè sfasciare tutto, isolarti dai tuoi alleati e renderti allo stesso tempo inviso ad una sempre più grande maggioranza di cittadini. 

Occorre domandarsi se non sia proprio la modalità relazionale di Renzi (ma il discorso riguarda anche Calenda) uno dei più grandi ostacoli all’ottenimento di risultati tangibili nella sua azione politica e nella capacità di rappresentanza.

La comunicazione, e quella politica non fa certo eccezione, è composta da un “cosa” e da un “come”, da contenuto e da relazione. 

Purtroppo Renzi sconta una perdita di credibilità oggettiva, non ci interessa qui analizzarne le cause, che dovrebbe indurlo ad evitare le cosiddette tentate soluzioni disfunzionali rispetto al raggiungimento degli obiettivi dichiarati (ammettendo che coincidano con quelli reali), nella fattispecie: un’azione di governo più qualificata, più autorevole per affrontare Recovery Plan, introdurre il Mes, sconfiggere crisi pandemica ed economica. 

Se lo stesso Renzi riconosce che “se una cosa la dico io” la reazione largamente maggioritaria tra opinionisti, politici e cittadini è quella di un rifiuto stesso ad entrare nel merito, allora dovrebbe pensare, non potendo cambiare il popolo, a cambiare strategia.

Come ripeto da un po’, servirebbe davvero un Coaching applicato ai politici. 

Come puoi ottenere risultati diversi se continui a reiterare un comportamento con il quale sai che allontanerai i tuoi obiettivi proclamati? Ti interessa ottenere un risultato e sai che, se sei tu a farne da bandiera, le persone non ti ascoltano e tantomeno ti seguiranno? Non ti resta che uscire da questo schema invece che lamentarti di sbatterci contro in continuazione. 

Non andare alla prova di forza, dialoga fino all’impossibile. Non fare tu il protagonista, ritagliati il ruolo di stratega e statista che costruisce senza salire sul palco, affida ad altri il compito di portare avanti le questioni. Esercita il controllo collaborando, non far precipitare gli eventi ma costruisci il consenso con la pazienza che hanno i forti. Sii ecumenico e non settario, ricorda la via, il potere dell’umiltà, a cui ci richiama Papa Francesco. 

Nei vertici delle aziende, e in quelli della politica ancora di più, la competenza richiesta per esercitare con efficacia la propria funzione, ha una imprenscindibile dimensione “comportamentale”. Si chiama intelligenza emotiva. 

Dimensione che appare davvero trascurata da entrambi i leader in questione. 

Sembra che ci si voglia auto-proclamare depositari di un monopolio della “bravura”, che assomiglia tanto alla versione liberal-democratica della superiorità morale di cui si sono vantati per molto tempo i comunisti italiani e che assume aspetti un po’ stucchevoli quando, come studenti bisognosi di riconoscimento, si afferma: “siamo gli unici che leggono i documenti”.

A 100 anni dalla nascita del Partito Comunista in Italia sembra quasi, consentitemi l’iperbole scherzosa, che un approccio tardo-bolscevico, la lotta di un’avanguardia autoproclamatasi illuminata, la rivendicazione della superiorità di una minoranza “giusta” che tenta di imporsi su una maggioranza “eretica”, si annidi più in partiti di stampo liberale che tra gli epigoni del sol dell’avvenire. 

Una scorciatoia alla “conquista del potere” che per fortuna non si affida più come un tempo alla rivoluzione armata ma, più modestamente, al tatticismo parlamentare. Al tirare la corda facendo leva sul proprio “potere di coalizione”, “siamo determinanti nei numeri al Senato, senza di noi il Governo cade” o, per dirla come uno schietto Renzi di qualche anno fa, sull’inaccettabile potere di veto dei piccoli partiti

Un altro riscontro della “via bolscevica al riformismo” lo si evince anche dal sapore vagamente da “Terza Internazionale” che ha assunto la contesa tra formazioni politiche che pescano nello stesso bacino europeista e liberal-democratico. Una vera lotta senza esclusione di colpi, non priva di canoniche scomuniche. Qui dobbiamo riconoscere che il maggior impegno nell’affermazione della purezza riformista e nello screditamento in stile “dagli al socialfascista” che caratterizza i rapporti tra partiti di comune ispirazione riformista è sicuramente quello di Calenda nei confronti di un più mite, su questo piano, Renzi. 

A nostro avviso, anche la natura di partiti (o, meglio, gruppi parlamentari) personali – non con un leader, ma del leader – favoriscono quel massimalismo di fondo che caratterizza sia Italia Viva che Azione e appare poco utile a far uscire quest’area politica dal nanismo elettorale e dalla rissosità congenita.

Va riconosciuto a Calenda di non aver voluto cedere, almeno finora, al tatticismo che ha invece monopolizzato l’azione di Italia Viva. L’elemento che dà all’avventura di Azione delle chances maggiori rispetto al partito di Renzi non è la narrazione della competenza ma piuttosto quella della coerenza che il leader di Azione può rivendicare rispetto alla posizione di estraneità e opposizione a Conte, e al rifiuto di alleanze innaturali con i 5S.

Morire di tattica è il rischio molto reale che corre invece la formazione di Renzi. Nonostante l’ossessiva rivendicazione di aver agito esclusivamente per ragioni di merito e a vantaggio esclusivo del Paese, non si può non rilevare che il presupposto – dichiarato esplicitamente peraltro – sul quale si è potuta produrre la svolta di Renzi con le dimissioni delle ministre, si fonda su una valutazione esclusivamente di opportunità derivante da un contesto interpretato come favorevole. 

Il presupposto, cioè la condizione che permette di agire in un determinato modo, sta tutto nell’esclusione dell’ipotesi di elezioni. Non è mancata occasione a Renzi per ribadirlo nelle sue innumerevoli interviste e presenze televisive. Tra l’altro usando l’argomento dell’attaccamento alla poltrona dei parlamentari piuttosto che quello, che dimostrerebbe quantomeno maggiore sensibilità, della pandemia in corso.  Una scelta dettata da condizioni tattiche quindi, non una chiamata all’azione determinata da valori e ideali supremi. Se le elezioni fossero uno scenario anche solo probabile nella valutazione del leader di IV, egli non avrebbe prodotto crisi di governo, non avrebbe parlato di vulnus della democrazia, di minaccia per il bene del Paese rappresentata dall’insipienza della compagine di governo. Il che obiettivamente rende la battaglia “di merito” un tantino meno credibile. E soprattutto porta a chiedersi: quale orizzonte politico, quale missione per il Paese può avere una formazione politica che è in grado di rendersi protagonista solo in funzione del fatto che non si va a votare da qui a 2 anni?

Per coloro che invitano a guardare esclusivamente al merito,  occorre ricordare che anche la sfiducia a Bonafede avrebbe richiesto, mesi fa,  lo stesso metro di giudizio. Evidente che le ragioni politiche di tenuta della maggioranza hanno prevalso in quell’occasione sulle pure ragioni di merito, per stessa ammissione di Renzi.  

Del resto, una persona come Carlo Cottarelli, al quale la “competenza testimoniata” in campo economico viene riconosciuta pressoché unanimemente, ha avuto modo di manifestare forte perplessità sull’opportunità di aprire una crisi di governo in una fase così delicata. Ridimensionando tra l’altro anche la questione dell’introduzione del Mes. Certo auspicabile, ma, ha detto Cottarelli, un fattore divisivo che si conosceva già al momento della formazione del governo, e che comunque non è una questione di vita o di morte come i toni usati dai renziani farebbero intendere. C’è un maggiore risparmio nelle risorse, vero, ma più modesto di quello calcolato da IV secondo Cottarelli e soprattutto non è che se non si adotta il Mes la sanità viene abbandonata a se stessa e crolla. Le risorse per adeguare il nostro sistema sanitario si dovranno trovare e verranno utilizzate comunque. E pure una crisi di governo ha un costo, in termini di spread ad esempio, da non trascurare. 

E, per ribadire come quello del “merito delle questioni” sia un terreno scivoloso, ricordiamo le parole di un altro economista, Francesco Saraceno, che ha trovato particolarmente pretestuosa “l’accusa di aver sprecato 20 miliardi per la sanità, quando sarebbero stati disponibili i 36 miliardi del Mes. I critici sembrano dimenticare che i fondi del Mes servirebbero a coprire costi diretti e indiretti della pandemia, mentre il Recovery è stato pensato per investimenti di medio-lungo periodo. Chi ha ritirato la delegazione del governo a gran voce chiedendo il Mes sicuramente sa che la Commissione non avrebbe mai accettato l’utilizzo dei 36 miliardi per lo sviluppo della telemedicina o per la digitalizzazione dell’assistenza sanitaria.”

Per rimanere sempre in tema di relazione con l’opinione pubblica fa specie la puntigliosità ossessiva di Renzi nel diffondere cifre, in particolare i 564 milioni, non uno di più, non uno di meno, di risparmi derivanti ad oggi dall’introduzione del Mes. 

Oltre ad addentrarsi su un sentiero pericoloso per l’esattezza delle cifre questa ripetitività di numeri astratti e altisonanti allontana e non avvicina la comprensione dei fenomeni da parte dei cittadini. 

Ci viene in mente a questo proposito un dibattito presidenziale americano che ha fatto storia, quello del 3 ottobre 2000, il primo, tra l’allora Vicepresidente Al Gore e il candidato repubblicano George W. Bush. Quello che ci racconta Drew Westen in “La mente politica” riportandoci le parole di Bush dopo aver ascoltato un elenco minuzioso di cifre da parte di Gore:

Vedete, questo è un uomo che ha un sacco di numeri. Parla di numeri. Comincio a pensare che non solo abbia inventato Internet, ma anche la calcolatrice. È una matematica che non si capisce.” 

Ci racconta poi Drew Westen, che in quel dibattito Gore, portandosi sul piano dell’elenco di dati e cifre di precisione, “si consegnò alla strategia di Bush che lo presentava come una testa d’uovo priva di emozioni, e non un tipo normale, uno come noi. Dopo la fine del dibattito” – continua ancora Westen – “mentre lo staff di Gore festeggiava, tutti gli esperti di comunicazione concludevano con sicurezza che per l’allora Vicepresidente si fosse trattato di un disastro.”

Quindi è chiaro che stiamo parlando di azioni politiche, anche nel caso di apertura della crisi, che vanno interpretate non in astratto con le categorie del giusto o dell’ingiusto, ma in concreto, come azioni rivolte in primo luogo ad acquisire un maggior potere come partito e che usano di volta in volta metri diversi di comportamento. Quanto efficaci per la forza politica in questione non sappiamo, ma usciamo dall’ingenuità di credere che siano in campo battaglie ideali o che il merito sia davvero la discriminante. 

Del resto amici che parlate di merito cosa c’è di più politicista, tatticista e meno legato al merito del rivendicare compiaciuti di voler essere l’ago della bilancia degli equilibri parlamentari (vedi intervista al Corriere di Renzi del 20 gennaio)?

Naturalmente non si pensi che l’analisi condotta sia orientata ad accreditare l’immagine che gli altri soggetti politici di maggioranza e lo stesso Presidente del Consiglio siano esenti da errori o da debolezze strutturali. 

Esiste un rischio di deriva “governista” e di immobilismo nel principale partito riformista, il Pd? Sì esiste. Ne abbiamo già parlato qui

Esiste un’ inadeguatezza strutturale del personale politico del movimento 5S.  Sì, esiste.

Esiste un problema di visione debole e poca propensione a spingere su riforme  del Premier? Sì, esiste. 

Tuttavia i punti di equilibrio vanno spostati in avanti gradualmente e c’è una parte consistente del Paese, stanco e logorato da pandemia e crisi sociale ed economica, che guarda alla politica e a questa maggioranza per trovare rassicurazione. E Conte, leader per caso, si trova ad interpretare questo ruolo  meglio di altri, in questo momento.

La straordinaria contingenza politica che ha portato prima al capovolgimento della maggioranza di governo, poi alla gestione di una crisi sanitaria senza precedenti, e infine al ritorno di un protagonismo europeo del nostro Paese in occasione del varo del Recovery Fund da parte della Ue, dovrebbe portare a prendere atto che Conte incarna una novità evolutiva del quadro politico uscito dalle elezioni del 2018 ed esprime una potenzialità da soggetto politico da non negare per visioni corte, di difesa del proprio spazio politico. Il Pd, occorre dirlo, sembra averlo compreso.

Nelle critiche di IV e Azione al Premier (ma in questo ultimo caso va riconosciuta come dicevamo la coerenza della non disponibilità all’operazione Conte 2) riscontriamo anche quella relativa all’eccesso di trasformismo di Conte, passato dall’alleanza con la Lega a quella con Pd e Leu. Strano, per IV, dirlo ora dopo un anno e mezzo di governo insieme. 

In ogni caso, perché dolersi di questo passaggio da un’alleanza all’altra? Il percorso contrario sarebbe stato molto peggio, no?

E se Conte fosse, in nuce, un punto di riferimento per l’area moderata,  un democristiano del 21° secolo, perché stupirsi della sua capacità di passare da un “forno” all’altro dello schieramento politico? Non si tratterebbe di una versione accelerata, in linea con i nostri tempi, della tradizione della cosiddetta Balena Bianca, della possibilità del centro moderato di allearsi alternativamente con destra e sinistra? 

Può non piacere questa caratteristica ma in politica, se costruisci alleanze di governo invece che esserne estromesso, dovresti valutarlo positivamente, soprattutto se hai portato su posizioni europeiste e liberal-democratiche un leader, e un movimento, che avevano teorizzato la bontà del sovranismo. 

Bene, allora non ripieghiamo su antichi schemi di purezza ideologica. Come dice Tabacci, dobbiamo dire messa con i frati che ci sono.

La scommessa del governo anti Salvini fatta proprio da Renzi con la “mossa del cavallo” avrebbe dovuto far prevedere questo possibile scenario evolutivo che potrebbe portare ad un possibile partito moderato guidato da Conte. E proprio IV non avrebbe dovuto viverlo come ostile per ragioni di difesa del territorio. Avrebbe anzi invece potuto cavalcarlo. Finora infatti questa tensione con il Presidente del Consiglio non ha prodotto vantaggi in termini di consenso per IV. 

Come disse Lao Tse, meglio usare la flessibilità piuttosto che la rigidità, in modo che il controllo delle cose si ottenga dalla collaborazione con esse. 

Dalla capacità di influenzarle positivamente piuttosto che da una politica muscolare di scontro dove probabilmente tutti, alla fine, ne escono sconfitti o comunque piu deboli.

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