I talenti fanno sempre bene a chi li possiede o il modo in cui vengono vissuti potrebbe nascondere delle trappole che li depotenziano o li rendono inefficaci?
Dobbiamo rifuggire sempre e comunque dal “pensare negativo” o anche questo approccio può essere funzionale al cambiamento desiderato?
Ci dobbiamo rassegnare a leadership, nelle aziende come nella società, solo in grado di “imporsi” e “occupare” le posizioni o possiamo sperare in nuovi modelli fondati sulla forza generativa delle relazioni e del capitale sociale?
A questi ed altri dilemmi provo a dare delle risposte grazie anche alle suggestioni che mi ha offerto la visione recente di “Encanto”, il film d’animazione della Pixar-Disney.
Faccio alcuni cenni sulla storia per chi non lo ha ancora visto e avviso subito che dovrò presto “spoilerare”.
Tutti nella famiglia Madrigal, di generazione in generazione, hanno avuto in dono un talento. Tutti tranne Mirabel, la protagonista.
I talenti della famiglia Madrigal riescono a dare un tocco magico all’intera comunità di Encanto, facendola prosperare e rendendola immune dai pericoli. Almeno apparentemente.
Sulla famiglia Madrigal e su Encanto incombono infatti minacce di disgregazione e distruzione.
Sarà proprio Mirabel a scoprire quanto in realtà la sua famiglia sia vulnerabile nonostante i talenti magici di cui dispone.
Un’efficace illustrazione presa da @worry_lines mi pare calzi a pennello con lo stato d’animo dei talentuosi membri della famiglia.
Nell’immagine si vede una persona che si curva sempre di più sotto il peso crescente di nuove medaglie e la didascalia recita: “solo perché ti viene bene qualcosa non significa che quella cosa ti faccia bene”.
Il peso delle aspettative
I Madrigal si scoprono fragili. Sono prigionieri del loro talento e soprattutto della loro prestazione, che si presume sia validata socialmente solo se assoluta, sempre al massimo. Ognuno di loro sacrifica la propria vita al talento finendo per perderlo o per perdere lo scopo di preservarlo.
L’ingranaggio li stritola. Non si può vacillare, figuriamoci cadere. Non si possono deludere le aspettative degli altri, non ci si può liberare dalla pressione sempre maggiore, non si può sfuggire al dominio della performance assoluta.
La paura permanente di perdere il proprio talento, e la stima sociale di conseguenza, produce un circolo vizioso di insicurezza che determina a sua volta prestazioni incerte che alimentano ulteriore insicurezza in una spirale senza soluzione di continuità.
Guardando intorno a noi, una prima considerazione. Quanto “potenziale” umano si arrende davanti al mito della prestazione che deve sempre superare sé stessa? Quanto talento viene disperso per il fatto che spesso viene assurto ad unico parametro di giudizio del valore di un essere umano? Quante volte ci “dimentichiamo” di vedere che esiste una persona dietro la performance? A quante rinunce a percorrere la strada del proprio talento assistiamo, per mille motivi?
Ecco, per inciso, mentre prolifera la logica agonistica esasperata dell’uno su mille ce la fa modellando, non di rado in modo disfunzionale, i comportamenti, bisognerebbe inventarsi un “Ufficio Talenti Smarriti”, per supportare le persone quando cadono, ed aiutarle a riprovare. Si recupererebbe valore, umano ed economico.
E invece sembra, non solo a Encanto, che tutto debba essere perfetto altrimenti, come nell’abitazione dei Madrigal, affiorano inesorabilmente le crepe, le mura non tengono.
Impara a cadere
A Encanto, e forse anche intorno a noi, non si concepisce che nella vita si possa cadere per poi rialzarsi. Non deve succedere.
Anzi non si percepisce che quello che conta di più “non è imparare a rialzarsi quanto piuttosto esercitarsi a cadere con grazia e furia” come viene detto “mirabilmente” in un post della bella pagina Facebook di “Tlon – Filosofia per la fioritura personale” tenuta da Andrea Colamedici e Maura Gancitano.
Mirabel, pur senza talento, si sentiva comunque speciale. Sentiva orgogliosamente di essere parte di una famiglia di “supereroi invincibili” a cui guardava con ammirazione. Pur dovendo fare i conti con il senso di esclusione che provava nel non poter dimostrare anche lei di essere indispensabile alla comunità grazie ad un proprio talento.
La nonna, la guida della famiglia matriarcale dei Madrigal, vedendola super impegnata nel voler aiutare durante la preparazione della cerimonia di “consegna del talento” per il fratellino Antonio, esprime al meglio questo senso esasperato di “responsabilità” che deriva dal possedere il talento, e che, magari senza volerlo, si traduce in autoreferenzialità, in tono di sufficienza, dicendole: “lo so che vuoi dare una mano ma stasera voglio che sia tutto perfetto, l’intero villaggio conta sulla nostra famiglia, sui nostri talenti. Quindi per alcuni di noi il miglior aiuto possibile è farsi da parte, lascia che il resto della famiglia faccia le cose al meglio”.
Ma anche i talenti più potenti, se vissuti come pura “prova di forza” individuale, non sono in grado di mettere al riparo una comunità, per quanto miracolata come quella di Encanto, dalle avversità della vita. La casa andrà in frantumi e serviranno nuove fondamenta sulle quali costruire.
E sarà proprio la Mirabel “senza talento” a mettere in campo con successo la missione di salvare famiglia e comunità. Cambiando il “paradigma” potremmo dire. Ogni stella singola, prima o poi, brucia e si consuma. E’ la costellazione, nel suo insieme, che può far rinascere costantemente il “miracolo”.
E nel percorso che porta Mirabel a raggiungere il suo obiettivo mi viene da dire che ci trovo un bel po’ di approccio strategico al problem solving (vedi l’ampia bibliografia sul tema del suo “creatore” Giorgio Nardone).
Non nominare Bruno
Innanzitutto Mirabel deve trovare Bruno, lo zio dal talento profetico, alle cui previsioni si attribuiva la causa di alcune avversità verificatesi nel villaggio e che si è dovuto allontanare e nascondere dalla comunità dopo aver avuto una “visione”, in realtà avvolta dal mistero anche per lui, sul destino di Encanto.
Su Bruno bisogna aprire una parentesi. “Non nominare Bruno”, l’ordine categorico che vige nella comunità, è una metafora, simpaticamente contraddittoria (ricorda il “Non pensare all’Elefante” di George Lakoff) di come crediamo di evitare gli eventi avversi esorcizzando il pensiero “negativo”.
Quella di zio Bruno, tuttalpiù, mi si passi il termine, potremmo definirla “analisi del rischio”. Prevedeva scenari, non determinava esiti nefasti. Lo dice Bruno proprio a Mirabel quando i due finalmente si incontrano: “la famiglia, Encanto, il destino del miracolo stesso, alla fine tutto dipenderà da te. O magari sbaglio, è un mistero”. Tutt’altro che profeta di sventura Bruno le svela che “la visione era mutevole, non c’era una sola risposta o un destino segnato. Come se il tuo futuro fosse ancora da scrivere.”
Ma nella comunità vige il falso mito del “pensiero unico positivo”. Il “devi crederci e tutto si sistema”, il “non esistono problemi” o “i problemi esistono solo quando li evochi”. Approccio ben rappresentato da un’altra zia di Mirabel, Pepa. Il suo potere è quello di controllare il tempo atmosferico con le emozioni, tramutare in sereno le tempeste e i temporali. E Pepa racconta di come, al suo matrimonio, il fratello Bruno disse “forse pioverà”. E solo per questa cauta previsione Pepa crolla dicendo “un ciclone scoppiò in me”. E successivamente, in piena crisi di prestazione, la vediamo invocare, come in un mantra sempre meno efficace, : “cieli tersi!, cieli tersi!” mentre la situazione intorno sta precipitando.
Non voler vedere e affrontare problemi non ci aiuta. “Tutta la vita è risolvere problemi” diceva Karl Popper.
Pensiero positivo vs pensiero negativo?
Siamo abituati ad una logica di netta separazione: pensiero negativo vs pensiero positivo..
Esiste una terza via, il “pensiero strategico” che unisce i poli apparentemente contrapposti, rendendo anche il pensiero negativo funzionale al cambiamento desiderato.
Con un’efficace analogia che ho appreso nella Scuola di Coaching Strategico-esperienziale FYM nella quale mi sono qualificato Coach, potremmo dire, estremizzando un certo modo di concepire il pensiero positivo, che indossare la cintura di sicurezza in auto significa pensare che andremo a sbattere, e quindi significa già creare le condizioni per realizzare un incidente.
In realtà l’uomo è sopravvissuto soprattutto grazie al pensiero negativo. Che non è pensare metto la cintura perché “mi andrà male” ma “se va male, se dovesse succedere allora mi proteggo”. Forse che su pandemia e guerra in Ucraina, solo per citare due esempi di questo nostro presente tribolato, non scontiamo il fatto che non abbiamo saputo mettere, per tempo, “cinture di sicurezza” (di previsione e negoziazione strategiche)?
Il pensiero strategico utilizza tutte e due le energie. Mette a sistema anche il pensiero negativo, rendendolo produttivo. Come nelle arti marziali, dove si studiano e si allenano i colpi, ma anche i “non-colpi”: dove si impara a sfruttare l’energia dell’avversario a proprio vantaggio.
Nel Problem Solving strategico sono le soluzioni che spiegano il “funzionamento” dei problemi. Anziché “capire per cambiare”, cerchiamo di “cambiare per capire”. “Conosco un problema attraverso la sua soluzione” ci dice Giorgio Nardone.
Ed è quello che a me pare faccia esattamente Mirabel. Innanzitutto spezzando la credenza del villaggio intorno a Bruno, e cioè che lo zio porti male. E poi mettendosi alla sua ricerca per dirgli. “Io non credo che tu porti male. A volte quelli strani come noi si fanno una brutta fama”.
E quando Mirabel, decisa a intraprendere la sua missione, si domanda “eh, un attimo, ma come si salva un miracolo?” realizza appunto che, prima di tutto, deve scoprire “cosa disturba il miracolo”.
“Se vuoi drizzare una cosa prima impara a storcerla” è lo stratagemma fondamentale del modello strategico che ci invita, come prima cosa da fare davanti ad un problema, ad individuare le cosiddette “tentate soluzioni disfunzionali”, e a creare avversione verso le stesse con tecniche specifiche come quella “paradossale” del “come peggiorare”.
[Fine prima parte]