Per una negoziazione equa e a valore aggiunto, fate attenzione a non “sbagliare torta”!

Quando vi trovate a negoziare con qualcuno avete sempre chiara la reale posta in gioco? Tendete a rimanere ancorati ad una posizione o prendete in considerazione la possibilità di valutare diverse opzioni?

E, soprattutto, pensate che la “torta” si possa solo dividere o che invece possa essere anche incrementata? E con quali criteri ritenete che si debbano distribuire i benefici aggiuntivi derivanti eventualmente da un accordo?

Cerchiamo, con un semplice esempio, di districarci meglio rispetto a tali domande.

Giuseppe, pizzaiolo, offre ad Alice e Roberto una delle sue magnifiche pizze da 12 fette, a patto che i due si mettano d’accordo su come dividersele.

Se non ci riescono, Giuseppe offrirà solo mezza pizza, decidendo però di dare quattro fette ad Alice e due a Roberto.

Come risolvereste voi la questione? Quale accordo proporreste ad Alice e Roberto? 

Nella maggioranza dei casi le persone scelgono una delle due seguenti possibili soluzioni, ciascuna delle quali fa perno su diverse scale di valori e priorità.

Una prima prospettiva, è quella che chiameremo del potere, inteso come rapporto di forza esterno, indipendente dal negoziato. Potere che andrebbe riprodotto e garantito, tale e quale, all’interno del negoziato.

Alice ha più potere, detiene il doppio delle fette di Roberto, e in base a questa condizione dovrebbe ricevere il doppio anche delle sei ulteriori fette. In sostanza l’accordo dovrebbe essere: 8 a 4

Negoziazione

Una seconda prospettiva è invece quella che si richiama ad un principio di equità (ma personalmente ritengo più appropriato parlare di uniformità). In questo scenario Alice e Roberto si dividono la pizza a metà, a prescindere dalla propria “condizione” di partenza: ognuno riceve sei fette.

Ora, avete pensato ad una di queste opzioni anche voi o ne avete individuate altre?

Intendiamoci, se le parti concludono un accordo, possiamo anche immaginare che lo facciano con soddisfazione reciproca. Il negoziato va valutato pragmaticamente: se c’è accordo, è efficace. Tuttavia le due modalità non sono le uniche possibili e, soprattutto, non è detto che soddisfino al meglio il principio di equità tra le parti.

Proviamo infatti a vedere la questione sotto un altro punto di vista, come ci suggerisce Barry Nalebuff, Professore alla Yale School of Management e imprenditore “serialenel suo recente libro “Split the Pie. A Radical New Way to Negotiate” (2022) dal quale abbiamo tratto l’esempio.

Alice e Roberto, per ottenere le ulteriori sei fette, hanno in realtà uguale bisogno l’una dell’altro.

Rispetto al valore aggiunto che l’accordo tra di loro può creare (le ulteriori 6 fette di pizza) sono, entrambi, nella stessa misura, indispensabili. In relazione alla possibilità di raggiungere l’obiettivo hanno quindi lo stesso potere.

La vera torta della negoziazione a cui guardare, e da dividersi con equità, corrisponde alle ulteriori sei fette, che rappresentano il valore incrementale che solo il raggiungimento dell’accordo può determinare.

La soluzione più equa quindi, secondo Nalebuff, è che le sei fette incrementali vengano divise a metà e che ciascuna delle due parti mantenga la propria posizione di partenza. Ad Alice spetteranno 7 fette (4 + 3) a Roberto 5 (2+3).

In sostanza Nalebuff parte dal presupposto che le parti hanno pari diritti sul valore aggiunto prodotto con l’accordo. Un approccio “radicale” perché cambia il modo di guardare al potere tra parti negoziali. E sul quale va messa in conto una possibile resistenza da parte di chi coloro che beneficiano dello status quo. Resistenza che, Nalebuff lo dimostra con vari esempi, può essere superata.

Già William Ury e Roger Fisher negli anni ’80, avevano rivoluzionato il tradizionale approccio alla negoziazione che guardava ad una torta delimitata che si può solo dividere, un gioco a somma zero dove qualcuno ottiene e qualcun altro deve cedere. Nel loro libro “Getting to Yes” (1981) parlarono di negoziato di “principi”, dove emergono gli interessi convergenti delle parti, spesso “oscurati” dalle rigide prese di posizione. La negoziazione diventa un gioco a somma positiva, dove la torta non solo si divide ma si può incrementare.

Ma come distribuire il “valore aggiunto” che nasce da un accordo? Come suddividersi cioè i guadagni ottenuti? E a quali criteri ricorrere per regolare la divisione della torta “incrementale”?

Il punto, secondo il nuovo approccio del docente e imprenditore Nalebuff, è che molto spesso le parti in gioco guardano alla torta sbagliata, e cioè al valore totale disponibile da dividere. Mentre la vera torta da identificare è il guadagno in più prodotto dalla collaborazione tra le parti. E’ questo valore aggiunto che spinge le parti a concludere l’accordo. E questo accade perché i benefici aggiuntivi raggiunti dalle parti con l’accordo sono maggiori della somma delle cosiddette “BATNA” delle due parti (Best Alternative to a Negotiated Agreement).

L’esempio della pizza potrebbe sembrare semplicistico e soprattutto svincolato da considerazioni materiali e cogenti circa la diversa distribuzione iniziale di potere tra le parti. In fin dei conti l’attribuzione da parte di Giuseppe delle prime sei fette (4 ad Alice e 2 a Roberto) ci appare puramente casuale, non ancorata né a meriti particolari né a posizioni materiali acquisite e, in qualche modo, giustificabili socialmente.

Ma con un altro esempio contenuto nel libro, più ancorato alla realtà degli interessi materiali, risulta subito evidente che le due prospettive tradizionali esaminate, quella del potere e quella dell’uniformità, non sono le opzioni necessariamente  più naturali.

Andrea e Bruno hanno differenti capitali che intendono investire in certificati di deposito. Andrea ha a disposizione 5.000 euro, Bruno 20.000. Ad Andrea la banca può concedere un interesse dell’1%, a Bruno del 2%. Ma se mettessero insieme i loro capitali riuscirebbero ad ottenere un interesse migliore, pari al 3%.

Sui 25.000 euro complessivi otterrebbero 750 euro di interessi.

Ma come dividersi questo valore aggiunto?

Bruno propone la soluzione che ritiene più ovvia. Ognuno di loro prende il 3% sul denaro investito. Andrea guadagnerebbe 150 euro (3% su 5.000), Bruno guadagnerebbe 600 euro (3% su 20.000). Siamo alla soluzione “8 a 4” nel caso delle fette di pizza, ciascuno ottiene in proporzione al suo “potere” iniziale.

Per inciso. A differenza del caso delle fette di pizza, dove spesso i partecipanti ai nostri corsi di formazione scelgono la soluzione dell’uniformità, il 6 a 6 per intenderci, qui molto difficilmente qualcuno potrebbe trovare appropriato proporre tale distribuzione dei guadagni. Che significherebbe dividersi il guadagno dei 750 euro in parti uguali, senza tener alcun conto dei capitali di partenza. 375 euro per Andrea (che guadagnerebbe oltre il 7% su 5.000 euro) e 375 per Bruno (che realizzerebbe addirittura un tasso più basso, l’1,8% circa, rispetto al 2% che può guadagnare investendo da solo il proprio capitale).

Ma la soluzione proposta da Bruno (ognuno  prende il 3% sul proprio capitale), è la più equa oggettivamente?

O, come nel caso delle fette di pizza, e come ci consiglia Nalebuff, dovremmo guardare piuttosto al valore aggiunto creato dall’unione dei due capitali e considerare che quella “torta aggiuntiva” può essere creata solo grazie al contributo di entrambi?

Abbiamo visto che Andrea con il suo 1% avrebbe portato a casa 50 euro sui 5.000 di capitale e Bruno avrebbe ottenuto 400 euro pari al 2% sui suoi 20.000 euro di capitale.

Senza unire i capitali la somma dei guadagni è di 450 euro. Unendoli si ottiene il 3% su 25.000 euro, cioè 750 euro, 300 euro in più.

Quei 300 euro sono il valore aggiunto creato attraverso l’unione dei capitali, sono la “torta” a cui guardare e da dividere equamente a metà, 150 euro a testa. Sono il guadagno che dipende in egual misura dalle due parti, non in proporzione alle somme apportate.

Bruno in questo caso incrementerebbe il suo guadagno di 400 euro arrivando a 550 euro. Andrea aggiungerebbe 150 euro ai suoi 50, ottenendo 200. (Siamo alla soluzione 7 a 5 relativa alle fette di pizza).

Secondo il suggestivo approccio di Nalebuff l’accordo più equo è in sostanza quello dove, da un lato a ciascuna parte viene riconosciuto quello che può guadagnare da sola, e dall’altro lato il guadagno in più, che solo l’accordo consente, viene diviso in parti uguali.

L’approccio originale di Nalebuff ha l’indubbia capacità di fare luce su una criticità nell’implementazione di questa “soft skill” a cui sovente assistiamo nelle trattative. É la difficoltà a distinguere tra potere al di fuori del negoziato e potere nel negoziato. E da qui la resistenza a dare il corretto peso al principio di uguaglianza delle parti nel negoziato quando le stesse mettono sul tavolo contributi di partenza diversi.

Un approccio, infine, che regge alla prova anche con casi negoziali complessi e quando la torta incrementale è incerta. Anzi, forse meglio. Ci ritorneremo sopra con altri interventi. Per ora ci limitiamo ad osservare che mentre per le situazioni negoziali “semplici” possiamo immaginare relativamente facile per le parti disporre di BATNA (migliori alternative all’accordo) più convenienti, via via che i casi si fanno più complessi (nel libro ci sono esempi relativi a fusioni aziendali e alla collaborazione tra una grande multinazionale e una startup), e più l’approccio di Nalebuff appare fondato e plausibile, proprio perché la specificità delle parti in causa le rende più difficilmente “sostituibili” e conseguentemente può essere più difficoltoso disporre di alternative migliori fuori dal negoziato.

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